Il vicino

Illustrazione di Marta Goldin

Faceva il veterinario. In quanto tale, amava tutte le creature.
Quasi tutte.
Non la sua vicina. E nemmeno la figlia della sua vicina.
Si chiamava Schicchi , Attilio Schicchi
La sua vicina si chiamava Gigliola, e la figlia di lei Bianca.
Il dottor Schicchi aveva sessantadue anni, la signora Gigliola ne aveva cinquantuno, Bianca
ventiquattro.
Attilio era vedovo, e anche Gigliola lo era. Bianca invece era fidanzata. Il suo fidanzato era un
avvocato amorfo, pelatino già trentenne, con una sola passione: la squadra di basket della città.
Amava gli alti perché era basso, persino Bianca lo superava di quindici centimetri. Di nome, faceva
Pio. Corto pure di nome.
Il veterinario e le sue vicine non si salutavano, non si parlavano, non si guardavano, non si
sopportavano.
Probabilmente perché le vicine si sentivano spiate. Le spiava per un unico, ossessionante motivo: diffidava.
Si chiedeva, infatti, perché la vedova Gigliola, rimasta sola a nemmeno quarant’anni, non si fosse
più risposata, nonostante fosse fisicamente apprezzabile, e di discreta cultura. Sospettava che la sua
eccessiva riservatezza celasse qualche disdicevole mancanza: una respingente spigolosità di
carattere, un turpe segreto familiare, un’affezione maligna del sangue.
A dire la verità, quando le due donne – madre e figlia – si erano trasferite nel villino di fronte, il
dottor Schicchi aveva sperato di poter instaurare con loro rapporti di reciproca simpatia, di solidale
collaborazione, di umana comprensione. E forse all’inizio, per qualche mese, era stato davvero così.
Alla cordiale vicendevole presentazione, invitate in casa di lui per un tè una domenica pomeriggio,
madre e figlia si erano presentate con una sontuosa torta preparata da loro, e subito la conversazione
si era sviluppata sui binari consueti della buona educazione. Nessuna indagine indiscreta sul vissuto
familiare, sulle tendenze politiche, sulla situazione economica, ma solo un vago discorrere
dell’ambiente circostante, di qualche trasmissione televisiva, delle previsioni meteorologiche che
prospettavano un inverno inclemente.
All’arrivo previsto del freddo, faticosamente superato il trambusto del trasloco, Gigliola e Bianca
ritennero doveroso ricambiare la gentilezza del dottor Attilio, offrendogli un’accoglienza garbata
nella loro abitazione. Si spinsero addirittura a guidarlo in un sopralluogo compiaciuto delle stanze,
ordinate e linde come si conviene in tutte le dimore femminili della media borghesia.
Il vicino si spendeva in fervidi apprezzamenti: «Com’è ben arredato il salotto, che tende eleganti,
una libreria fornitissima, la cucina è accogliente, le camere luminose, i bagni profumati…»,
sottintendendo un confronto severo con il suo fumoso e ingombro alloggio di vedovo. E forse
suggerendo l’implicita preghiera di venire ospitato più spesso sotto il tetto delle due donne.
Cosa che puntualmente avvenne, fino a inoltrata primavera.
Lui si presentava di solito il sabato sera, trascorsa la laboriosa settimana in ambulatorio,
accompagnato da una bottiglia di buon vino da degustare nel corso della serata. Si fermava per due
o tre ore, mai oltre alle ventidue, non appena scorgeva qualche segno di cedimento negli occhi
appannati della signora Gigliola. Con naturalezza erano passati dal lei al tu, facendosi anche più
disinvolti nelle confidenze sul proprio vissuto, con le debite reticenze e i convenienti rimossi del
caso. Tuttavia l’anziano veterinario si era presto sentito investito di una sorta di mandato parentale,
quasi a protezione della vedova e dell’orfana. Al punto che non si era astenuto dal commentare
negativamente la figura di Pio, fidanzato di Bianca, dopo averlo conosciuto.
«Un po’ limitato per tua figlia, non credi? E non mi riferisco solo all’altezza», aveva sussurrato alla
vedova una volta rimasti soli. Allo sguardo infastidito della donna, si era sentito in dovere di
continuare: «Voglio dire, mi è sembrato banale nella conversazione, sgradevole nella voce,
evidentemente complessato e irresoluto nel carattere…».

Piccata, la futura suocera aveva precisato: «Occupa già un’ottima posizione in un rinomato studio
legale», e lui sbuffando «Macché macché! Un passacarte da scrivania!».
Presto si era preso la briga e l’impudenza di intervenire direttamente con la ragazza, umiliandola
con battute e profezie sul suo infelice futuro coniugale. Attribuendosi un’abusiva autorità paterna,
una sera era arrivato addirittura a imporle di rientrare in orario di decenza.
Probabilmente fu da allora che madre e figlia, irritate dalle inopportune e indiscrete invasioni del
dottore nel loro privato, decisero di limitare la sua presenza in casa. Questo irrigidimento fu subito
avvertito da lui come un atto ostile, una sorta di dichiarazione di guerra. Nell’arco di tre mesi i
rapporti si erano a tal punto raffreddati, che ad Attilio Schicchi parve opportuno chiedere una
formale chiarificazione alla signora Gigliola sui motivi dell’allontanamento.
Si presentò un pomeriggio di festività infrasettimanale con un sorriso stampato tra timore imbarazzo
e sfida: un cestino di vimini e un mazzo di margherite variopinte in mano. La vedova accettò gli
omaggi con cortese condiscendenza, presto dissolta dalla sorpresa di trovarsi accomodato in grembo
un micetto fulvo sbucato inaspettatamente fuori dal cestino. «Vi farà compagnia. E magari ci aiuterà
a ricomporre l’amicizia», suggerì untuosamente il veterinario, forte della propria esperienza
professionale.
«Carino! Grazie, che pensiero affettuoso!», si commosse la signora, aggiungendo «Come lo
chiamiamo? Pupo, Fuffi, Toby, Nino?».
«Bisognerà vaccinarlo, e fra sette mesi castrarlo», sentenziava severamente lui, tentando di
nascondere l’irritazione per la banalità dei nomi suggeriti. Con il pretesto del primo intervento
medico, invitò Gigliola a raggiungerlo in ambulatorio la settima seguente, dopo l’orario di chiusura,
per evitare la fila in sala d’attesa.
Lei andò, già trepida materna innamorata del micio. Con la perizia di una vita intera, la mano del
veterinario svolse rapidamente le operazioni prescritte. «Per il battesimo?», chiese affettuosamente
sornione. «Bruno, come mio marito», sorrise la donna.
«Ma è rosso, non vedi?».
Poi, stringendole un braccio, «Sarebbe ora di dimenticarlo, il defunto», la morse leggermente sul
collo. La reazione della vedova fu addirittura eccessiva, e decretò la fine di qualsiasi tentativo di
civile riavvicinamento.
Iniziarono subito telefonate di disturbo, in casa di madre e figlia. Semplici squilli insistiti, tre
quattro volte di seguito, soprattutto all’ora di pranzo. Poiché la cosa cominciò a ripetersi anche di
notte, Bianca decise di staccare la spina prima di andare a letto. Più tardi comparvero messaggi
allusivi nella cassetta postale: pubblicità di erbe e cibi afrodisiaci, articoli di giornale su stupri
violenze e delitti contro le donne, fotografie di accoppiamenti con animali.
Il dottor Schicchi spiava dietro le tende le reazioni delle due donne. Godeva nel vederle trasalire
rispondendo al telefono, o avvicinandosi titubanti al cancello per prelevare la posta. Si sarebbe
aspettato qualche reazione, che puntualmente non arrivava. Composte, silenziose, Gigliola e Bianca
avevano deciso di ignorare le molestie, sperando si esaurissero col passare del tempo.
Pio, il fidanzato avvocato, si era eroicamente offerto di prestare il suo appoggio legale, o di
affrontare personalmente il maniaco, ma ne era stato dissuaso dai suoi stessi colleghi, e soprattutto
dalla propria pusillanimità.
Il vicino alzò il tiro. Si faceva vedere in compagnia di vistose signorine, che accompagnava in auto
la sera della domenica, strombazzando allegro col clacson. Spalancava ostentatamente la finestra
del bagno durante la doccia o stando seduto sul water. A tutto volume diffondeva brani d’opera o
canzoni che potessero riferirsi a una qualche indegnità delle due donne. Sbatteva stracci e tappetini
dal balcone non appena le vedeva affacciarsi, sputava, sbadigliava, si soffiava rumorosamente il
naso, provocatorio nel palesare disprezzo.
Madre e figlia ostentavano indifferenza. Non reagivano. Tacevano.
Solo quando Attilio Schicchi, con un’improvvisa accelerazione in retromarcia della sua Audi
schiacciò il loro gattino che attraversava cauto la strada, lasciandolo stritolato sull’asfalto, allora sì,
allora scoppiarono a piangere.


Alida Airaghi è nata a Verona nel 1953 e risiede a Garda. Dopo la laurea in lettere classiche a Milano, è vissuta e ha insegnato a Zurigo per il Ministero Affari Esteri dal 1978 al 1992. Collabora a diverse riviste, quotidiani e blog italiani e svizzeri.
Tra le sue pubblicazioni di poesia: L’appartamento, in Nuovi Poeti Italiani, 3 (Einaudi editore 1984), Rosa rosse rosa (Bertani 1986), Il peso del giorno (La Luna – Grafiche Fioroni 2000), Litania periferica (Manni 2000), Un diverso lontano (Manni 2003), Frontiere del tempo (Manni 2006), Il silenzio e le voci (Nomos 2011), Nuovi Poeti Italiani, 6 (Einaudi editore 2012), Elegie del risveglio (Sigismundus 2016), Omaggi (Einaudi editore 2017), L’attesa (Marco Saya 2018), Rime e varianti per i miei musicanti (Marco Saya 2020). Inoltre, presso le edizioni Liecolle, sono uscite le plaquette: Il lago (1996), Sul pontile, nell’acqua (1997), Litania periferica (1998), Le mura di Verona (1998). In prosa ha pubblicato: Appuntamento con una mosca (Stamperia dell’Arancio 1991), Fine dicembre (Le Onde 2010), Qualcosa del genere (Italic Pequod 2018) e il romanzo breve In cornice (Ensemble Edizioni 2019).
 


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