
Una lama di scialitica negli occhi
sfiorarsi di sfuggita
attraversarsi in corridoio
possibile scostamento di bilancio
mercati incerti possibili rovesci
girano ansie nel tè verde
oggi che fai?
fissando il vuoto
non sentire la risposta
l’armadio aperto urla le sue crisi esistenziali
vestirsi e poi andare
sedersi tristemente
a parlare ad uno schermo
bestemmiare
bere caffèspresso
uno
due
tre
sono le dieci
lo stomaco si spacca stringendo una lattina
all’una polli in batteria
insalate approssimate
senza aceto
senza sale
senza senso
poi seduti nuovamente
a fissare schermi spenti
e obiettivi più grandiosi
più lontani
concepire piani – tanti
per schiantarsi addosso alle scadenze
consumare cene alleggerite
per smaltire la giornata
un petto di tacchino
mezza minerale
una sigaretta sul balcone
e sfilarsi le camicie
per sentirsi un poco vivi
curarsi le ferite a mezzanotte
la carne esposta alle piastrelle
il vuoto nero a fare sponda
la Pantafica sul petto
gli occhi sbarrati
le gocce
le gocce dove sono
uno
due
tremano le mani
quattro
cinque
sei tu che non ricordi
sette otto
dove sei stato
dieci undici
dice il dottore
dodici tredici
quando eri piccolo
quattordici
non fanno male
diciassette diciannove
venti.
Sono le due
e tu sei morto.
Ore sei e trenta.
Erika Di Felice dal 1984 nasce e muore più volte al giorno.
È un automa affettivo programmato su un sistema binario: per la maggior parte del suo tempo traccia linee dalle quali uscire fuori, per il resto preferisce scrivere su fogli bianchi. Il suo sistema operativo è stato bruciato da svariati cortocircuiti, uno dei quali sfociato nella pubblicazione di un libro di poesie – Sulle labbra del silenzio.
Da allora – o forse da sempre – è costantemente in manutenzione.